Pier Paolo Pasolini, Terracina

Oggi festeggio il mio 55^ compleanno.

Vicolo Rappini ~ Terracina
Vicolo Rappini ~ Terracina (Latina)


Ho ricevuto fiori, canzoni dedicate, pic bellissime, regali, pensieri.
Vorrei contraccambiare… E allora, lo farò donando questo splendido racconto inedito di Pier Paolo Pasolini (inedito fino al giugno 1999, quando fu ritrovato dagli studenti dell’ITS Bianchini di Terracina, insieme al loro professore, Giovanni Iudicone, presso il Fondo Pasolini di Roma).

Terracina (di Pier Paolo Pasolini)

Nella spiaggia c’era più movimento, ma il mare era sempre immobile, morto.
Si vedevano delle vele arancione al largo, e molti mosconi che si incrociavano vicino alla spiaggia. Lucià avrebbe avuto fantasia di prendersi un moscone, e andar al largo: però era solo, e non era buono a remare. Andò sul molo tutto smantellato e ancora pieno di squarci, nuotando nei punti dove gli squarci interrompevano, finchè giunse in pizzo, sulla piccola rotonda. Si distese sulla pietra con la testa che sporgeva dall’orlo sul mare.
Verde, trasparente e tiepida, l’acqua si gonfiava e si sgonfiava tra le colonne del molo, ora pesante come un blocco di marmo, ora lieve come l’aria. Benché fosse alta già due o tre metri non c’era granello di sabbia che non si potesse distinguere dall’alto della rotonda: ed era una sabbia morbida e pulita, un tappeto meraviglioso per chi potesse vivere sotto acqua. Ogni tanto vi passava un granchio, veloce, o si intravedeva qualche stella. Lucià stava a meditare su quella bellezza: quando arrivò sotto il molo un ragazzino con un moscone.
“A maschio – gridò – me ce porti?”
“Daje” fece l’altro.
Lucià si gettò a caposotto e andò a toccare con le mani la sabbia; poi risalì alla superficie e si attaccò alle code del moscone.
“Andiamo al largo” disse al maschio.
Il maschio si diede subito da fare, ma aveva i braccini ancora teneri e i remi sbattevano a vuoto sull’acqua senza spuma. “Famme provà” disse allora Luciano. Il ragazzino cambiò di sedile, e Luciano provò a remare. “Mica è difficile” disse. “Mamma non vuole che m’allontani troppo” disse il ragazzino. “E che d’è – fece Luciano – andiamo a cento metri”.
Dietro il molo si allungava la spiaggia, un arco che pareva senza fine, da una parte e dall’altra dell’orizzonte, battuto dal sole che lo scolpiva nell’aria coi suoi colori violenti.
Il bruno della rena, le mille tinte delle vernici dei capanni, le striscie smaglianti degli ombrelloni; le macchie bianche degli scafi, gli intonachi dorati delle ville, tutto era ammassato nel sole in una immobilità di sogno: che nemmeno il formicolio, silenzioso, della folla, l’incrociarsi dei mosconi, i voli dell’aereoplano rosso e il flusso della marea riuscivano a incrinare. Ma in quella immobilità dovuta alla lontananza si sentiva straripare la felicità festiva di Ostia.
Il moscone si dondolava come abbandonato sull’acqua: i remi si agitavano nel vuoto, come delle ali spezzate, e Lucià perdeva la pazienza; però si accaniva a voler spingersi il più possibile al largo. Guardava con invidia, lontanissime, nel puro azzurro tra mare e cielo, le vele delle barche dei pescatori pensando che di laggiù non si potesse intravedere che a stento la terra.
Poi, quasi improvvisamente, da dietro il molo, comparve una piccola barca a vela, bianca come una colomba. Filava inclinata e silenziosa, obliquamente, verso l’alto. Lucià smise di remare e stette a guardarla. Essa si avvicinava, come miracolosamente, e venne quasi addirittura a sfiorare col suo scafo di legno candido il moscone. Si allontanò leggera com’era venuta, quasi non fosse che una forma un po’ più materiale del vento, e in pochi minuti era già distante, cancellata o rimpicciolita dalla distanza: ma ancora rifulgente nella vernice del mare.
Poco tempo ancora, e sarebbe stata una di quelle vele sperdute nell’intimità del mare, dove l’azzurro era tanto più profondo e incantato. Lucià aveva seguito in silenzio quel volo, e quando la barca fu lontana, si rivolse allegro al suo compagno gridando: “Daje, maschiè, che annamo in mezz’ar mare”. E cominciò a darci sotto con più accanimento sui remi. Il ragazzino era preoccupato per la sua mamma. “Non tenghi mica paura, vè, maschiè?” gli diceva Luciano. “Paura de che?” rispondeva il piccoletto offeso.
“Der mare” disse Lucià.
L’altro alzò le spalle, con un’espressione negli occhi incupiti che voleva dire: “E che, scherzamo?” Lucià era eccitato. Cominciava a remare un pò meglio, e i remi riuscivano a far presa sull’acqua che si gonfiava e si sgonfiava sotto il moscone.
Intanto anche il molo si allontanava. La spiaggia era già un ammasso confuso di colori nell’oro del sole. E Luciano era felice di essere così isolato in mezzo all’acqua. Più bello ancora, però, sarebbe stato se si fosse gettato a nuoto, e si fosse trovato del tutto solo, staccato dalla barca , tra le onde silenziose. “Reggi i remi” gridò al ragazzino. E si tuffò dal sedile, nuotando verso il largo.
Tiepido e leggero come la seta, il mare lo alzava e lo abbassava: ora con uno sguardo poteva abbracciarlo fino all’orizzonte più lontano, ora vi si trovava immerso nel centro, come in una piccola vallata tra piatte colline d’acqua senza spuma, con le creste controluce e i fianchi tinti dall’ombra trasparente. Standoci dentro, immersi, si piombava del tutto dentro quell’ombra. Per qualche istante ci si sentiva come in una vasca, fuori dal mondo, in un cerchio di solitudine, in un piccolo deserto pieno di dune verdi e malinconiche. I riflessi della luce erano smorti giù per le schiene larghe e piatte delle onde, fino in fondo alla depressione in ombra. Poi uno spirito dentro l’acqua preso da un orgasmo calmo ma incessante, come il respiro di un addormentato, uno spirito il cui movimento si estendeva in tutti gli angoli del mare, premeva dalla profondità verso la superficie, scompigliando inquietamente il suo ordine. Ci si trovava d’improvviso in cima a un’onda, nel fulgore della luce, ricompariva l’orizzonte con le vele e il sole.
Una distesa sterminata di piccoli monti, si diramava intorno fino a fondersi, lontano, nell’azzurro compatto e leggero. Il mare si ripopolava e riviveva. Lucià nuotava sempre verso il largo, per mettere il maggior spazio possibile tra sè e la barca. Già la vedeva abbastanza lontana, scossa, sotto il legno piatto degli scafi, dal movimento del mare. E più indietro la spiaggia, Ostia, la terra. Tutto gli pareva lontano, la sua vita stessa di Roma, dai più scuri giorni dell’infanzia ai baci della zanoida nella cabina. Tra quel tempo e lui c’era la stessa acqua del mare intento a sorridere o a turbarsi con sè.
Quando fu un pò più stanco, si voltò e vide che il moscone era davvero lontano: se si abbassava tra le onde, anzi, non lo poteva nemmeno più scorgere. Fu preso da un pò di paura: le onde intorno, come campane silenziose, erano rimaste uguali, verdi, ma parevano piene di una scura minaccia. Una minaccia che covava nel fondo, come se lo spirito che da di dentro le agitava avesse d’improvviso mutato umore.
Lucià si sentì lì in mezzo troppo solo e, sperduto; ma si vergognava a chiamare il ragazzo del moscone. Così ritornò indietro lentamente per non stancarsi, ma sentiva nella schiena un brivido di paura, come se qualcuno lo guardasse minaccioso, per cacciarlo via. L’acqua lo stringeva da tutte le parti, era nel regno dell’acqua, e il mare si stendeva intorno paurosamente grande.
Infine raggiunse il moscone, ma non volle salirvi, e si attaccò alla coda. “Vai verso la riva” gridò al maschietto. Socchiuse gli occhi e si lasciò trascinare, immaginandosi di essere in mezzo a un oceano, come un naufrago.
Tonino lo aspettava ammusato sulla spiaggia del Battistini. Aveva fame, e se ne andarono a mangiare al Pescatore, il locale più di lusso di Ostia. Tornarono subito sulla spiaggia, e Lucià si fece un sonnetto sulla rena; poi andarono ancora in giro sul moscone, a fare il bagno al largo; e infine, mentre il sole affondava rosso e tranquillo nel mare, ripresero il taxi e tornarono a Roma. Scesero, per non dare nell’occhio, vicino alla Piramide di San Paolo.
Dal Circeo, a destra, confuso tra le nuvole, nuvola lui pure, distante, isolato, con le sue cime acute tutte tinte di cenere e azzurro fumo, già nel cerchio della spiaggia che staccandosi da quelle ombre di terra ferma appena distinta dal cielo, si precipitavano in una lunga curva, fino a passare davanti agli occhi, con le file dei capannoni abbandonati, e a spezzarsi a sinistra contro un promontorio monumentale – il mare riempiva lo spazio, piatto, luccicante e vivo.
Ma da dietro il promontorio, che, tutta roccia, sormontato dai ruderi di un tempio, spingeva in avanti, contro la marea, un obelisco granitico alto un centinaio di metri, e largo una sessantina – solitario tra lo sperone e le acque – si slanciavano verso l’alto mare i monti dell’altro braccio del golfo. I monti di Gaeta e di Sperlonga , i monti allineati in catena, ondulati, del meridione, che filtravano l’orizzonte fino in suo cuore: una lontananza mesta, color ruggine, dove il grigio del cielo e del mare si mescolavano in bagliori trasognati.
Così dal Circeo a Sperlonga il mare pareva un immenso lago, e solo un suo lato pareva non avere confini: ma le nuvole lo offuscavano, lo chiudevano. Erano nubi disordinate e pesanti, specie sopra il Circeo, dove nereggiavano minacciose: nel centro si squarciavano, e qua e là affiorava il cielo azzurrino o giallo, e verso sinistra sulla lunga catena dei monti, il sole faceva cadere un ventaglio di raggi, come riflettori puntati su un solo specchio del mare, che quindi luccicava, in quel punto, come una spada nuda. Alle spalle, addossata al monte, con gli stessi colori del monte, grigia e pietrosa si ammassava Terracina. Questo era tutto quello che si poteva vedere stando distesi sui tetti della casa dei parenti di Marcè. Le tegole erano bagnate, perchè certo durante la notte era piovuto: Luciano vi stava disteso sopra con le mani sotto la testa, guardando per aria. Marcello stava quasi per addormirsi. Il tetto era alto, e la villa era posta sopra una gobba del terreno coperta dalle piccole viti come una ragnatela: così da lassù, benchè la posizione non fosse molto comoda, lo sguardo non poteva spaziare liberamente. Era questo che dava soddisfazione a Luciano. Senza che Marcè se ne accorgesse egli accarezzava con lo sguardo la parte più lontana dell’orizzonte, dove il mare era solo mare, puro mare, senza legami con la terra, senza niente vicino. Laggiù il sole, più che in ogni altro punto del cielo tutto coperto, riusciva a filtrare la raggera della sua luce, e a colorare del loro azzurro acqua e aria. Comunque, la pioggia era certa. Sul Circeo le nuvole si erano fatte così compatte e nere che lo avevano inghiottito, e di là si allargavano sulla leggera nuvolaglia cosparsa già per tutto il cielo; un’aria fredda le accompagnava, che pareva sempre sul punto di far roteare le prime gocce gelate di pioggia. Lucià doveva dunque decidersi a distogliere lo sguardo dal mare e a interrompere il piacere che ne provava: ben meritato, del resto, perchè aveva cominciato a desiderare quel momento fin dalla sera prima della loro partenza e immaginandosi un mare proprio così solitario, così selvaggio e così nudo. Già subito dopo i Castelli – l’aria della mattina era fuligginosa, e da lassù non si poteva scorgere il mare – dietro Velletri, quando l’Appia aveva cominciato a discendere verso il basso, puntando contro una muraglia grigia di montagne, Lucià si era alzato due o tre volte dal sellino convinto di vederlo. Infatti dei vapori bianchi stagnavano ai piedi di quelle montagne, oltre una breve pianura, e parevano le acque di un golfo. “Er mare, er mare – gridava Lucià – Ecchelo” “A stronzo – gli rispondeva Marcè – mica è er mare, hai voja”.
La mattina su Roma e sui Castelli era stupenda. C’erano, è vero, delle nuvolaglie, e proprio verso il Circeo, dietro Latina ma parevano nuvole innocue: in tutto il resto del cielo, era sereno. Eppure la sera prima, anche a Roma, c’era stato un forte temporale: la pioggia aveva colto Lucià e Marcè mentre da Villa Borghese se ne andavano verso la stazione Termini a rimediare un pò di pila per il viaggio: così, rinunciando alla stazione, erano corsi a rifugiarsi all’Esquilino in piazza Vittorio. E del resto erano stati fortunati perchè Marcè era riuscito a guadagnarsi un mezzo sacco e un pacchetto quasi intero di Chesterfield.
Fuori, tuonava e lampeggiava: ma, con la sera, era tornato il sereno. Poichè era la vigilia della festa della Madonna, già a molte finestre erano appesi i lampioni, che rilucevano chiari e iridati specie lungo le strade secondarie: migliaia di lumi che tremolavano nell’aria fresca e trasparente, e le facciate di molte chiese erano un immenso ricamo di lampadine elettriche accese. Uscendo dal cinema, dov’erano rimasti chiusi tutto il pomeriggio Lucià e Marcè erano stati colti da quel soffio d’aria serena, e Lucià, guardando in alto, tutto allegro, aveva gridato: “An vedi quante stelle”.
Andarono a prendere le biciclette da un meccanico in Trastevere. “Aspettami qui” disse Lucià a Marcè in fondo a via della Scala “E non fatte vede”. Marcè tremava un poco e gridò a Luciano: “Bada, che quello svaga”, ma Luciano alzò le spalle e diede all’amico un’occhiata di compassione. Entrò dal meccanico, dove c’era della confusione come sempre a quell’ora; prese due biciclette di cui una col manubrio di corsa, e diede il suo nome vero al meccanico, che lo annotò sul taccuino.
Per una mezzoretta Lucià e Marcè andarono in giro per Trastevere; poi Lucià riportò dal meccanico una sola bicicletta, pagò, e il meccanico non ricordandosi che le biciclette affittate erano due, prese i soldi e cancellò il nome di Luciano dal libretto.
Marcè aspettava sempre in fondo a via della Scala, dietro un portone. “Com’è ita?” domandò a Lucià. “Non ce lo sai che so’ un fenomeno” disse Lucià con aria indifferente “E come no?” brontolò Marcè ridendo. Ora toccava a lui, secondo il piano, benchè egli avesse preferito andare in due in una bicicletta a Terracina; ma Lucià lo costrinse andare dal meccanico, dove tremando come una fronda, prese la bicicletta dando un nome falso. Ma andò bene pure a lui: ora le biciclette erano rimediate, e andarono a dormire in una stalla nei pressi della stazione di Trastevere, sotto viale Marconi.
Alle prime luci dell’alba si svegliarono e si lavarono a una fontanella. Tutta la periferia era ancora immersa nel sonno, e contro il cielo, improvvisamente bianco, si disegnava lo scheletro del gasometro tra le ciminiere senza fumo. Saltarono in bicicletta e salirono su per il viale Marconi, deserto e bianco, si imbatterono col padre di Luciano.
Restarono impietriti, senza saper che dire o che fare. Egli li guardò dapprima non meno stupito, poi furioso. Era ancora un po’ ubriaco dalla sera prima, col viso in fuoco e gli occhi fuori dall’orbita.
Ad un tratto cominciò a urlare e si gettò su di loro afferrando per i manubri le biciclette. “Addò l’avete rubbate” gridava. Ma Luciano e Marcello erano stati svelti a saltare dalla sella e a scappare giù verso la stalla. Il padre di Lucià, sempre urlando contro di loro, risalì il sentiero, svoltò su per viale Marconi, verso la bottega di frutta di un amico suo.
Vi arrivò davanti e posò le biciclette contro le saracinesche chiuse. Essi lo avevano seguito di lontano a piedi: appena egli fu entrato in casa, Lucià gridò a Marcè: “Non te move” e corse verso la bottega, afferrò le biciclette e le portò, spingendole di corsa, verso dove lo aspettava Marcello. Vi saltarono sopra e scapparono giù, verso il sottopassaggio della stazione. Per la strada non c’era ancora un’anima. Ma il padre di Lucià si era fatto subito sulla porta e li aveva visti mentre saltavano in bicicletta. “Se te pijo t’ammazzo”, si era messo a urlare dietro a Luciano; poco dopo infatti era venuto fuori con una bicicletta e si era messo a inseguirli.
“Ai Battiglioni Emma ” gridò Marcè.
Tagliarono giù per il sottopassaggio, per via Volpata, e filarono verso le baracche dei Battiglioni Emma, in mezzo alle quali, tra orti, vicoletti e mucchi di rifiuti fecero perdere le loro tracce. Poi con più calma, andarono verso San Giovanni e presero la strada di Terracina.
Erano già a Terracina e il mare, cominciato a sospirare subito dopo Velletri, quando in fondo al cielo era comparso il Circeo, ancora non si vedeva.
Color fumo e pietra, la città era appiccata al monte, con le sue torri diroccate, solcata da vicoli stretti come visceri, tra i muraglioni senza intonaco. Era Terracina alta: Lucià e Marcè, invece, seguendo l’Appia le arrivarono ai piedi lungo una strada che pareva della periferia di Roma o di Ostia. “Ma dove cazzo sta er mare” gridava Lucià “Subbito ce semo ” gli rispondeva Marcè col batticuore. Arrivarono in fondo a quella strada, e a sinistra apparve un grandioso sperone di roccie, sulla cui cima, tra le nubi, si vedevano le rovine di un tempio. Dopo due pedalate arrivarono sulla spiaggetta.
Il mare si stendeva davanti a loro, color terra solcato qua e là da qualche bagliore. Stretto tra il promontorio del tempio, il Pescamontano, e il porto, pareva angusto, chiuso, senza orizzonti.
Lucià e Marcè scesero dalla bicicletta, e gli andarono incontro. Era calmo, profumato, e pieno di un lieve fragore. Da lì il Circeo non si vedeva. Contro luce, sull’acqua color creta, e più lontano verdastra, si vedeva una lancia dondolare sui riflessi piena di figure nere di pescatori. La spiaggetta, con la rena bagnata era tutta ingombra di lance a secco, di falanghe, di pertiche conficcate nella rena bagnata, di ajate rugginose stese ad asciugare al vento.
Appoggiati con la schiena a un muretto che separava la strada dalla spiaggia, sette od otto uomini e ragazzetti, in fila, se ne stavano chini con le gambe larghe intorno a delle ceste lavorando accaniti e in silenzio. Lucià si avvicinò per guardarli; essi non alzarono nemmeno la testa e continuarono il lavoro. Districavano una lunghissima corda rossa, tutta ingarbugliata, arrotolandola nel fondo della cesta: alla corda rossa però erano legati dei lievi fili di nylon con in fondo un amo. Arrotolando la corda lunga, pazientemente, man mano che li trovavano, conficcavano gli ami in un pezzo di sughero attaccato a un bordo della cassetta.
In fondo alla spiaggia, sul frangente, c’era un gruppo di pescatori, tutti allegri, appena scesi dal porto. I più allegri erano dei ragazzi, alcuni coi calzoni arrotolati sulle coscie e scalzi, altri con gli stivaloni di gomma. Una barca era ferma sull’acqua bruna a pochi metri dal frangente, e dei pescatori vi si muovevano intorno. Dalla spiaggia i nuovi arrivati li interpellavano scherzosamente, e ogni tanto ridevano. Poi si misero tutti insieme a tirarla a riva, per un cavo: alcuni ragazzi coi piedi nell’acqua, la spingevano dalla poppa allegramente.
“Mo ar mare ce semo” disse Marcé sbadigliando. Erano tutti e due stanchi morti e la luce del mare li stordiva; Lucià a cavalcioni della bicicletta era rimasto fermo a lungo a osservare il lavoro dei pescatori, intontito, senza che essi alzassero nemmeno la testa. “Questi non ce filano pe’ niente” brontolò. Marcé non sapeva la strada per andare a casa dei suoi parenti. Provò a rivolgersi a un uomo che non ne sapeva niente; un altro, tutto allegro, col cesto del pesce sul capo, ne sapeva ancor meno. Marcé allora decise di andare di là del porto, un canaletto d’acqua verde e a quell’ora quasi senza una barca: ricordava che la casa era sul mare, ma di qua del pescamontano, sulla spiaggia. Infatti poco dietro il porto, videro uno stabilimento, e, lungo la riva del mare, le file dei capanni deserti, battuti dal vento.
Il lungomare era egualmente deserto, e le piccole palme e gli oleandri, sulle aiuole, parevano selvatici, lungo quella strada che si spingeva pareva senza fine per il litorale. Ma dopo nemmeno mezzo chilometro, tra le rade villette, quasi alla fine, Marcé riconobbe la casa. Era addossata a un monticello pieno di viti. Il cancello era aperto. Entrarono con le biciclette fino all’uscio ma dentro non c’era un’anima, la villa era vuota come un tamburo allora cominciò a gridare: “A zia Maria”, girando per il piccolo marciapiede intorno alla villetta, e battendo con le nocche ai vetri delle finestre.
“C’ho na fame che non ce vedo” disse Lucià. “E a me lo venghi a di?” rispose Marcé, di ritorno al suo giro intorno alla casa vuota. Lui lo guardò:”Me fai rabbia me fai” disse. “Toh – rispose Marcé – attacchete a questo”. “C’ho na fame che non ce vedo” ripeté Lucià. Scese pure lui dalla bicicletta e andò a ispezionare intorno alla casa. Dopo cinque minuti erano sul tetto.
Così, adesso, non restava che scalzare le tegole e andar dentro. Lo fecero e si calarono nel granaio che era tutto ingombro di patate e di grano: scesero giù per le scale e andarono dritti a cercare la cucina.
Intanto, però, mentre lavoravano sopra il tetto, alcune donne del paese li avevano visti, ed erano corsi dalla zia Maria in cooperativa gridando:”A casa vostra ce stanno li briganti” lei era venuta spaventata con tre o quattro giovanotti, solo, naturalmente, per cucinare ai briganti quattro uova al burro. Non aveva però riconosciuto Marcé, che era divenuto grande in quegli anni: quanto a Lucià il nipote le aveva detto, gridando, perchè era quasi sorda:”Questo è n’amico mio. Suo padre e sua madre sò morti in guerra”.
La zia Maria non era cattiva: gli altri parenti però, un’altra zia e i cugini, quando verso mezzogiorno rincasarono, non trattarono con molto entusiasmo i due viaggiatori. A pranzo, nel piccolo salotto rosso, che sapeva di muffa e urina di gatto, lasciavano cadere il discorso quando si trattava della loro sistemazione a Terracina o delle ragioni che li avevano convinti a venirsene da Roma. I cugini, un ragioniere e uno studente, facevano un pò gli ironici e gli indifferenti: e nessuno accennò mai per nulla ad invitarli a restare.
“A Marcé” disse Luciano quando furono soli, battendosi il naso con un dito. Marcé torse la bocca come per dire:”Che cazzo ne so”. “Io tajo” disse Lucià. Marcé gli fece cenno che parlasse piano. “Non ce vojono? – continuò Lucià a voce più bassa, battendo le mani come per concludere un affare – Non ce vojono? Se taja”. “Aoh” fece Marcé.
“Non andate a trovare lo zio Zocculitte?” – disse la zia, affaccendando in cucina. “E come no – gridò Marcé, guardando Luciano come se fosse una buona idea – c’annamo pure subbito”.
“A quest’ora lo trovate” disse la zia Maria.
Uscirono e presero le biciclette, salutando. “Tornate a trovarci”, dissero le zie, dalla soglia, cortesi.
Lucià corrugando la fronte, fece un suono con la lingua contro i denti che significava:”Ma li mortacci vostra”. “Je rompemo il cazzo? – riprese per la strada – e chi li fila pe’ niente: bon giorno, bon giorno, e te saluto Gesucrì”. “E’ regolare?” insistette, preso dallo slancio oratorio.
“Arriconsolate così” disse Marcello.
Lo zio Zocculitte abitava a vicolo Rappini sotto il Pescamontano, proprio sulla spiaggetta da dove arrivando avevano visto il mare. Intorno c’erano delle case crollate, poco più in là un bar: dietro un crocefisso di ferro con un mazzetto di crisantemi, si internava il vicolo tra le case di pescatori con le soglie coperte di reti sdrucide. Zio Zocculitte aveva sessant’anni, era solo, Vittorio, il suo garzone, stava per andare in quei giorni sotto le armi. Lucià e Marcé si sistemarono da lui.
Subito il giorno dopo cominciò la loro vita di pescatori; verso le dieci, dopo il lavoro delle coffe lo zio Zocculitte disse che era ora di andare. Vittorio prese la cesta e la coppa, e le appoggiò a terra davanti alla soglia: poi corse da un vicino a farsi prestare una bicicletta. Partirono verso la Mola che era una mezza dozzina di chilometri da Terracina; Vittorio reggeva la coppa lunga e pesante; Lucià e Marcé, in due sulla bicicletta, portavano la cesta. Il cielo era sempre minaccioso: giallo, terroso, bagnato, e soffiava scirocco con delle folate che inumidivano la pelle e i vestiti. La notte era piovuto e tutto era fradicio.
Arrivarono presto sull’ Appia, costeggiata dal Fiume della Ligna, due interminabili strisce gialle, che si perdevano verso Velletri, verso Roma, tra alberi ancora verdi, casolari e fratte. Alla Mola scesero dalle biciclette, le appoggiarono una contro l’altra in modo che stessero in piedi, e cominciarono la pesca. Era Marcé che aveva indossato gli stivaloni, sopra dei grossi calzetti di lana, come Vittorio, mentre per quel giorno Lucià doveva soltanto stare a guardare e imparare.
Vittorio scese dentro il Fiume della Ligna, fin che l’acqua, sporca e piena di erbe, gli arrivò alla caviglia. Teneva la stira della coppa per una estremità. All’altra estremità la coppa, dove si attaccava la circhia con la sua rete stretta e profonda, partiva una cordicella, un cui capo Vittorio gli diede da reggere a Marcé, dicendogli di scendere nel fiume, due o tre metri davanti a lui, e camminare tirando la cordicella. Così cominciarono a camminare coi piedi nel pantano lentamente: e la rete scorreva in mezzo al fiume, sotto il pelo dell’acqua.
Lucià seguiva i due pescatori passo passo, come in una processione. Ogni tanto Vittorio guardava in alto, per vedere che facesse il tempo. Si era un pò schiarito: si poteva distinguere il colore del Circeo. Intorno stridevano degli uccelli, e in mezzo al fiume gorgogliava l’acqua smossa dalla rete: erano gli unici rumori. Vittorio e Marcè camminarono in quel modo per una mezzora, e non avevano fatto che cinquecento metri: si vedevano le biciclette in piedi in fondo alla strada. “Voltiamo” disse Vittorio. Prima però tirò a terra la circhia, e la pulì dalle erbe acquatiche che si erano impigliate: Lucià si avvicinò e vide che il fondo della rete era gonfio e si muoveva. “Quanti ce ne saranno?” chiese. “Un otto chili” rispose Vittorio. Poi ricomincirono a camminare verso il punto di partenza: ogni tanto, ancora, mollavano e pulivano l’orlo della rete. Quando furono alle biciclette, risaliro sulla riva, tirando fuori dalla rete i gamberi che dovevano essere quasi sedici chili, e li rovesciarono nello spasello.
Al vicolo Rappini verso mezzogiorno c’era calma: sull’acciottolato fangoso restavano riverse le reti rotonde e le pertiche. Ogni tanto passava qualche donna col cannadiejo di terracotta sul capo, e subito scompariva dentro in casa, sollevando la tenda penzolante davanti alla porta, una vecchia rete smagliata. Sugli scalini stavano a pazziare dei mammocci tutti sporchi coi visetti già ruggini dei pescatori, dentro certe palandrane sdrucide che erano già state dei fratelli maggiori. Qualcuno però, stava ancora a fare le coffe, seduto con le gambe aperte contro il muro scrostato di casa sua. Il solicello di mezzogiorno indorava il vicolo, che sentiva tutto di zuppe di fraulini, con l’olio e la conserva.
La casa dello zio Zocculitte era una sola stanza a pian terreno: in mezzo aveva un letto matrimoniale che lo occupava per quasi tre quarti: le sue immense spalliere erano di ferro nero, tutte piene di volute e ricami. Il poco spazio che restava nella stanza era pieno come una stiva. Tra il battente della porta del piccolo andito, e il muro, erano ammassate pertiche, spungoni, coppini, alti e sottili; e qua e là in tutti gli angoli, vecchi fieri, aci, cime arrotolate. Alla trave centrale del soffitto erano appesi due fili di ferro che reggevano un’asse sopra la quale erano accatastate le coffe. Davanti a una finestrella c’era la stufa, e su la stufa bolliva la zuppa di fraulini. Appena finito di mangiare, ricominciò subito il lavoro. Tutto vicolo Rappini riprese a risuonare, come se fosse un solo cortile. Vecchi e mammocci, non c’era nessuno che non lavorasse, e che lavorando non parlasse e non gridasse coi vicini. Se ne stavano a gambe larghe chini sulle coffe in strada; ma anche chi restava dentro, nella stanza, ai piedi del letto, era come se fosse all’aperto. Vittorio e lo zio Zocculitte avevano preso le coffe fatte alla mattina, e a una a una le aprivano, e lasciando i palametri arrotolati in ordine in fondo alla cesta, staccavano gli ami conficcati nel sughero e vi infilavano un gambero ognuno, posandoli poi sul coperchio aperto della cesta. C’erano centocinquanta ami per ogni coffa: e il lavoro durò fino alle quattro. Allora Vittorio si cambiò e andò a ballare. Lucià e Marcè rimasti liberi e soli, andarono a spasso lungo la Fiumarella dove c’era il porto: era pieno di barche di ogni specie, juzzi, paranze, paranzelle, lancie, lampare, motopescherecci. La lancia di zio Zocculitte, Mariagrazia, era invece sulla spiaggetta in fondo a vicolo Rappini, la prima che Lucià e Marcè avevano visto arrivando.
La sera andarono a dormire presto: sul letto matrimoniale dormivano Lucià, Marcè e lo zio Zocculitte; Vittorio dormiva per terra. Alle una di notte si alzarono per andare alla pesca
Coperto da grandi distese di nuvole cupe ma strappate qua e là in modo che vi si poteva scorgere qualche stella, il cielo era così aperto che il mare, sotto di lui, non si distingueva se non per qualche rara piega di luce. In compenso si sentiva più forte – tanto fragoroso, anzi, che riempiva tutta la notte – lo scroscio della marea.
La spiaggetta era tutta piena di luci. I pescatori che già erano arrivati avevano accese le lanterne sulle poppe delle lance, e dentro il cerchio del loro chiarore si muovevano, chinandosi sulle falanghe, alzandosi, puntando le braccia contro i bordi, per sgradare la barca.
Vittorio accese la lanterna sulla Mariagrazia, che la stagione prima era giunta ormai al suo ventiquattresimo anno, ma era ancora fresca, solida, leggera nella sua elegante zinconatura; dentro lo scafo tutto era in ordine. La sgradarono spingendola sulle falanghe, fin che non venne a dondolare sull’acqua viva.
Lo zio Zocculitte cominciò a remare verso l’alto, in direzione del Circeo: ma non si vedeva a due metri di distanza; il mare e il cielo erano un solo baratro di ombra impenetrabile e fredda. Qua e là sparsi per il golfo si vedevano i punti di luce delle lanterne delle altre barche, ancora radi: in quel momento, dal porto, usciva il convoglio di una lampara, tutto turgido di luce. Ma si lasciò presto indietro la riva, andando a rimpicciolirsi verso le acque lontane del Circeo.
Lo zio Zocculitte remava, Vittorio e gli altri due se ne stavano seduti in fondo alla barca.Tacevano, e si sentiva solo il fruscio del legno dei remi sul ferro degli scalmeri, contro il fragore immenso del mare.
“Si va lontano?” chiese dopo un pò con un filo di voce Luciano a Marcello. “E che ne so’?” fece Marcè: lo zio Zocculitte e Vittorio tacevano. Vittorio prese il posto di zio Zocculitte ai remi. “Andiamo fino alla scogliera” disse zio Zocculitte, seduto sul macellaro. “Sotto il Circeo” aggiunse. Tra lui e Vittorio remarono per quasi due ore. Ormai pareva che la terra fosse lontanissima: c’era solo il mare intorno così aperto che dava quasi un senso di paura. Invece, non erano molto distanti dalla terra: se, a quell’ora, ci fosse stata la luna, Lucià avrebbe visto sopra il suo capo alzarsi come un’enorme muraglia nera, più nera del cielo, il Circeo con le sue rupi e le sue foreste.
Fu così quasi ai piedi del Circeo che la barca si fermò, e Vittorio si chinò a scandagliare l’acqua. “Ci siamo?” disse lo zio. “Ventiquattro – rispose Vittorio – va bene”. “Ventiquattro braccia” ripetè Luciano e Marcello.
“Siamo sulla scogliera” disse lo zio Zocculitte. Vittorio prese da sotto la prua il sughero quadrato, dove era infilata una canna alta un mezzo metro con in cima uno straccio nero: legò alla canna la seconda lanterna e l’accese. “Qui sotto – disse zio Zocculitte, mentre Vittorio lavorava – c’è Quadro. “Che è?” disse Lucià
“E’ una città sepolta sotto le acque, negli antichi tempi”.
“Sta qui sotto la barca?” chiese Lucià. “E come no, con tutte le sue chiese e i suoi palazzi. Era una città grande come Roma” disse lo zio Zocculitte.
Vittorio intanto aveva attaccato sotto il sughero una lunga corda, il calamiente, e all’altra estremità aveva legato il màzzero e un capo del palametro della prima coffa.
Intanto tutto il golfo andava riempendosi di piccole luci: s’erano raddoppiate, perchè ogni lancia aveva gettato il frascone con la lanterna in mare. Anche Vittorio gettò in mare il ffrascone: il sughero galleggiò, ondeggiando come ubriaco con la lanterna sul pelo dell’acqua, mentre il màzzero era scomparso con un tonfo portando, appunto, a ventiquattro braccia di profondità il calamiente e il palametro. Allora zio Zocculitte cominciò a remare pian piano, mentre VIttorio in piedi a poppa, dalla prima cassetta aperta, lasciava scivolare il palametro in mare, reggendolo con le mani: il palametro scorreva giù coi suoi fili di nylon ai cui capi c’erano gli ami con infilati i gamberi. Finita una coffa, Vittorio vi legava all’estremità la seguente. Dieci erano le coffe, in tutto quasi due chilometri di corda, e millecinquecento ami. La barca, guidata dallo zio Zocculitte, non si allontanava però dritta dal frascone, bensì a lente curve, in modo che i palametri in fondo al mare si adagiassero a serpentina; infatti il frascone ballonzolava fulgido e abbandonato a non più di un mezzo chilometro, quando le coffe furono finite. Allora Vittorio legò all’ultima coffa il secondo calamiente e questo al secondo sughero, senza lume, però,e lo gettò in mare.
Intanto la luna cominciò ad albeggiare, fuori dalle nuvole che coprivano i monti di Sperlonga. Il cielo apparve sgombro; e le uniche nuvole erano appunto quelle ammassate laggiù e sbiancate dalla luna.Tutto il mare, tra il Circeo e Sperlonga, era punteggiato da centinaia di lumi. Il fianco del Circeo, colpito debolmente dalla luna, si alzava fino alle stelle, turchino contro il turchino del cielo.
Fu dunque sotto i raggi della luna che Lucià vide salire su dal mare i primi pesci. La barca si era staccata dal secondo frascone, senza luce, e a rapidi colpi di palelle, si era riavvicinata al primo, tutto sfolgorante. Vittorio lo tirò sulla barca e spense la lanterna, poi fece a rovescio il lavoro che aveva fatto prima: cominciò a tirare i palametri sulla barca, raggomitolandoli in disordine dentro gli spaselli. Lucià e Marcè gli si fecero vicini, pieni di ansia. I palametri venivano su dal mare coi loro fini penzoloni e gli ami vuoti. Poi, dopo venti o trenta ami, comparve il primo fraulino, tutto palpitante. Vittorio lo strappò dall’amo, e lo gettò nella cassetta ai suoi piedi. Lucià si chinò a guardarlo, con la sua pancia lucida colpita dalla luna e il suo occhio rosa.
“Adesso viene il palametro con gli ami grossi” disse Vittorio continuando sempre a lavorare con le mani. “Nella prima coffa un solo fraulino” disse Lucià deluso, guardando il fraulino morente dentro la cesta. Vittorio e lo zio tacquero. Intanto il palametro con gli ami grossi emergeva gocciolante e senza preda .Poi d’improvviso apparve un dentice, e dopo poco un altro dentice, grande, pesante, chiaro come l’argento. Poi uno schiantaro, un sarago, e un alto dentice; e un ronco di tre chili. Lo stesso zio Zocculitte lasciò i remi per venire a osservarlo. Vedendo che era silenziosamente contento, Lucià esclamò: “Vi abbiamo portato fortuna”.
Intanto i palametri si seguivano uno dopo l’altro, ora vuoti, ora coi pesci a cui la luna faceva luccicare le scaglie. Le grosse mani di Vittorio li staccavano e li gettavano a svincolarsi dentro la cassetta. Variati, palombe, mafroni, cocce, schiamuti, cergne, tracine, fraulini, i piccoli fraulini.
Passarono così quasi due ore; l’ultimo fraulino cadde nella cassetta che già lo illuminava il sole, non più la luna, e il fianco del Circeo si alzava buio contro il cielo e il mare già bianco nella luce del giorno.

Pier Paolo Pasolini

Vicolo Rappini ~ Terracina






One Response to “Pier Paolo Pasolini, Terracina

  1. Giovanni Iudicone ha detto:

    Salve, sono curioso di conoscere la localizzazione della foto di PPP
    E’ stata veramente scattata a Terracina in vicolo Rappini?
    Da chi?
    Grazie
    Giovanni Iudicone

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